Il deserto dei tartari


Vi ricordate di quando vi ho parlato delle letture scolastiche, e, soprattutto, di quanto fossero fastidiose e controproducenti? Beh, signore e signori, quella che mi appresto a presentarvi oggi è di sicuro l’eccezione che conferma la regola. Ho iniziato il progetto che mi ha portato a scoprire il libro -anzi, i libri- di cui vi parlerò fra poco senza nemmeno conoscere l’autore su cui era incentrato, e solamente perché pensavo di poter concludere la faccenda con poco sforzo. Ero d’altronde preparata alla noia che mi stavo praticamente garantendo, e anche per questo dopo aver letto Il deserto dei tartari sono stata piacevolmente sorpresa quando mi sono dovuta ricredere. 


Non è un caso che vi parli di questo proprio oggi: già, perché il 28 gennaio di cinquant’anni fa ci lasciava Dino Buzzati, uno dei più grandi giornalisti e scrittori del nostro Novecento. Questo “Kafka italiano”, nato a Belluno nel 1906, ha spaziato nella sua vita dalla cronaca al romanzo fantastico, dai racconti all’horror, fino al primo romanzo di fantascienza del nostro Paese e a una delle prime graphic novel mai scritte. Per partire alla scoperta di questo autore voglio iniziare con uno dei suoi romanzi più famosi, Il deserto dei tartari.


Titolo: Il deserto dei tartari
Autore: Dino Buzzati
Prima edizione: 1940, Italia
Genere: romanzo
Editore: Mondadori
Collana: Oscar moderni
Prezzo: 14,50€ (12,00€ l’edizione precedente)


Il tenente Giovanni Drogo ha da poco saputo di essere stato assegnato alla Fortezza Bastiani, l'ultimo presidio ai confini settentrionali dell'Impero, la quale è arroccata sul cosiddetto deserto dei Tartari, antica cornice di numerosissimi attacchi nemici. Un compito apparentemente prestigioso, quello affidato a Drogo, che riecheggia però unicamente della gloria passata, poiché da tempo immemore nessuna minaccia è stata più avvistata dal deserto e la Fortezza riflette ormai la decadenza del suo ruolo strategico e del suo prestigio. Giovanni, pur avvertendo immediatamente la strana ombra che grava sulla Fortezza e sull'esistenza che comincia a condurvi -ombra da cui, suo malgrado, è affascinato- e ricevendo numerosi avvertimenti da diversi altri personaggi presenti da sempre nel bastione, finisce per passare la sua vita nell'attesa dell'arrivo degli invasori e, quindi, del suo momento di gloria. Momento che arriverà, ma troppo tardi perché possa viverlo. 


Buzzati, per scrivere delle vicende di Drogo, si ispirò alla vita nella redazione del Corriere della Sera, giornale per cui lavorò ogni giorno (e soprattutto ogni notte) dal 1933 al 1939: un impiego che, come scrisse lo stesso Buzzati in una delle sue numerose interviste, era "pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili di quando si è giovani si sarebbero atrofizzati a poco a poco [...] e mi domandavo se anch'io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi oscuri che non avrebbero lasciato niente dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire". Trasportate queste poche righe in un tempo indefinito e in una decadente Fortezza di confine, in cui vigono precisissime quanto assurde regole gerarchiche messe in atto da militari stanchi e disillusi, ma non abbastanza da andarsene via, e avrete la trama de Il deserto dei tartari. L'attesa della notizia sensazionale con cui dare una svolta alla propria carriera ossessiona Buzzati come quella del nemico da combattere e della gloria personale fa con Drogo, ed è proprio questa attesa la prima causa della solitudine o, meglio, della distorsione dei rapporti umani che pervade romanzo, tanto riconoscibile da ognuno nelle proprie esperienze personali quanto indescrivibile a parole, se non con quelle semplici, ma di una profondità stravolgente, usate dall'autore stesso.


Ed è stato proprio lo stile dell'autore a rendere così significativa la mia esperienza di lettura: se infatti Buzzati non avesse usato le esatte parole che io mi sono ritrovata a leggere, probabilmente questo romanzo non mi avrebbe lasciato granché. La maestria di questo autore, per quanto mi riguarda, sta proprio nella sua grande padronanza della lingua: non c'è una parola fuori posto, non una da aggiungere o da togliere, ma ogni elemento combacia perfettamente con il quadro che Buzzati ha voluto creare. Lunghe e particolareggiate descrizioni cronachistiche, riflesso dell'esperienza giornalistica di Buzzati, si alternano a momenti introspettivi in cui ci viene mostrata la profonda e viscerale solitudine che affligge Drogo e tutti coloro che gli stanno attorno, ognuno intrappolato nella propria esistenza e incapace di comunicare per uscirne, prede dell’attesa -del tutto immotivata- del nemico che pervade il clima della Fortezza. Certo, detta così non sembra proprio un romanzo allegro, e d’altronde non lo è; ha però un pregio che non mi sarei davvero aspettata di trovare: la semplicità.


Di solito, per quanto le trame e le situazioni possano attirarmi, evito come la peste quei libri che parlano di tematiche esistenziali, perché spesso all’argomento in sé, che evidentemente ha ben poco di leggero, si aggiunge la pesantezza della scrittura, il più delle volte (almeno per me) incomprensibile. La prosa di Buzzati, invece, è assolutamente chiara, concisa, breve, un torrente che scorre limpido e in cui, come ho già detto, nulla è fuori posto. Non bisogna però confondere semplicità e sciatteria: ogni parola che Buzzati ha messo su carta, infatti, per quanto essenziale nasconde crepacci profondi come quelli su cui è arroccata la Fortezza Bastiani, significati celati che contengono interi mondi e che sono il vero cuore della storia. E questo, a mio modesto parere, significa scrivere bene.


Non credo, sinceramente, di riuscire a dirvi altro con le mie parole, perché Buzzati con le sue è riuscito ad esprimere già tutto e parlarvi ulteriormente di Drogo, degli altri personaggi e del clima che si crea tra loro -spoiler: solitudine e attesa- rischierebbe solo di farvi passare la voglia di leggerlo. Voglio però fare una doverosa precisazione: per quanto mi sia piaciuto lo stile dell’autore (tant’è che, come vedrete nei prossimi giorni, mi sono impegnata ad approfondire la sua opera), questa lettura non è stata una passeggiata di salute, perché il clima claustrofobico e malinconico che Buzzati intendeva creare l’ho decisamente percepito, anche grazie alla ripetizione di situazioni simili fra loro e ai numerosi soliloqui (resi tra l’altro in terza persona, in modo da aumentare esponenzialmente la distanza tra lettore e personaggio). Ma in quanti, nonostante la fatica, rimpiangono di aver cominciato una camminata in salita se poi possono godere di un tale panorama?


Non fatevi dunque fermare dall’aria superba e inaccessibile (e anche un po’ noiosa, diciamocelo) de Il deserto dei tartari, perché nonostante le apparenze questo romanzo è tutt’altro che arido. 

Conoscete Dino Buzzati? Avete letto Il deserto dei tartari? Cosa ne pensate? Ditemi tutto nei commenti!

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