Le sette sorelle


Oggi parliamo di un libro con cui ho provato ad uscire dalla mia comfort zone e che, purtroppo, mi ha abbastanza deluso: il libro in questione è Le sette sorelle, primo volume dell’omonima serie di Lucinda Riley.


Ognuna delle sei sorelle D’Apliese alla morte del padre adottivo si trova in giro per il mondo, e la maggiore Maia non fa eccezione: per una specie di crudele ironia della sorte, quando riceve la fatidica telefonata di Marina, la loro governante e “vice-madre”, si trova a Londra da un’amica e non ad Atlantis, il castello sul lago di Ginevra dove è cresciuta con le sorelle e che, unica fra tutte, non ha mai abbandonato. Tornata a casa insieme alle altre, però, scopre che la morte di Pa’ Salt non lascia loro solo il dolore della perdita, ma anche molte domande senza risposta: chi era in fin dei conti quel miliardario solitario, e cosa faceva per vivere? Perché attorno alla sua dipartita aleggia la stessa aria di mistero che lo circondava in vita? Per quale motivo ha adottato sei bambine chiamando ognuna di loro come una Pleiade, le dee che danno il nome all’omonima costellazione? Che fine ha fatto la loro Merope, la settima sorella? Ma il loro carismatico padre, anche se non a questi interrogativi, pareva intenzionato a dare delle risposte: nel testamento lascia infatti alle figlie una sfera armillare i cui anelli recano incise alcune coordinate che serviranno loro a trovare le proprie radici. 

Maia, spinta dall’affacciarsi di un passato che ha fatto di tutto per dimenticare, è la prima a intraprendere questo viaggio, che nel suo caso la porta alla Casa das Orquideas, un'antica dimora nobiliare nei dintorni di Rio de Janeiro, in Brasile. Ad accompagnarla, le ultime parole del padre “non lasciare che la paura decida il tuo destino” e una strana pietra triangolare datata 1929. Grazie all’aiuto dello scrittore e storico Floriano Quintelas, di cui ha tradotto i libri per lavoro, Maia riscopre il passato della sua antenata Izabela, divisa tra passione e dovere, tra le convenzioni sociali di una Rio conservatrice e l’arte della Parigi bohemienne, tra un amore impostole e un altro scelto a suo rischio e pericolo. Una storia che farà luce sulla costruzione del Cristo Redentore e che aiuterà Maia a liberarsi dei fantasmi che la perseguitano. 


Devo dire che di questo libro anche all’acquisto non avevo un’idea precisa: mi aspettavo un po’ di mistero, di accuratezza storica, di richiami alla mitologia e di romanticismo che, se sfruttato nel modo giusto, non mi avrebbe disturbato, anzi (per chi ancora non lo sapesse, i libri che parlano solo d’amore non riesco mai a farmeli piacere e cerco sempre delle alternative). C’è poi da dire che la bellissima edizione speciale -a un prezzo convenientissimo, tra l’altro- aveva spazzato tutti i miei dubbi: Le sette sorelle, anche solo per provare qualcosa di diverso, andava letto. A fine lettura posso dire che sì, non mi ero sbagliata, perché avevo davvero bisogno di un bel promemoria che mi ricordasse che non bisogna giudicare un libro dalla copertina e che, a volte, variare le proprie letture non è poi così importante.


Già dai personaggi, infatti, si può intuire perché questo libro non sia riuscito a piacermi: Maia, Izabela e perfino i comprimari sono estremamente piatti, più simili a dei cartamodelli che a delle possibili persone in carne ed ossa. Per prima incontriamo Maia, la maggiore delle sorelle D’Apliese, una ragazza tremendamente insicura che dopo un’esperienza a dir poco scioccante (che viene spiattellata a metà libro senza una ragione precisa, tra l’altro) si è completamente chiusa al mondo, restando rintanata nel Pavillion, la casa vicino al castello di famiglia nella quale rimane per la maggior parte del tempo proprio come la sua omonima mitologica nella sua caverna. Perfino il suo lavoro, quello di traduttrice, combacia alla perfezione con il suo stile di vita e le permette di continuare indisturbata una vita che però le sembra sempre più vuota. Leggendo queste poche righe Maia potrebbe sembrare il classico personaggio riservato e ferito che alla fine sprigiona il suo potenziale, e fin qui nulla di strano, anzi, ma è proprio questo il problema: anche se alla fine riesce a sbocciare, noi non riusciamo a vedere né un momento catartico, né una lunga e lenta rinascita. Insomma, Maia cambia e basta. Certo, la scoperta delle proprie origini è un passaggio importante nella vita di tutti, soprattutto di coloro a cui sono state tenute nascoste, ma questo non può causare in pochi giorni una tale metamorfosi. La stessa cosa vale per la relazione tra la nostra protagonista e Floriano, con cui inizierà ad aprirsi molto più che con la sua famiglia, e in un tempo brevissimo. Ecco, il tempo: se solo l’autrice ne avesse dedicato di più a lei e alla sua storia, probabilmente Maia sarebbe risultato un vero personaggio e non “un'ombra” verso la quale non ho provato una grande empatia.


Senza dubbio, però, la peggiore tra le due è stata Izabela: figlia di immigrati italiani arricchitisi con il commercio di caffè, viene quasi costretta dal padre -che ama immensamente la figlia e la moglie, ma non quanto la sua scalata sociale- a fidanzarsi con il rampollo di una nobile famiglia portoghese, Gustavo Aires Cabral, che si è innamorato di lei al primo sguardo. Un amore, ovviamente, al quale la nostra Bel non vuole sottostare, almeno finché Gustavo non le promette di intercedere per lei presso il padre in modo da farla andare in Europa insieme alla famiglia della sua amica Maria Elisa. Questo inizio piuttosto lineare spicca però per un elemento: il fatto che Maria Elisa è la figlia di Heitor da Silva Costa, l’architetto incaricato di costruire la statua del Cristo Redentore in cima al Corcovado, e che questo viaggio nel Vecchio Mondo sia volto a trovare uno scultore per il suo progetto. E per quanto straordinaria questa avventura si preannunci, Izabela non può assolutamente immaginare che a Parigi l’apprendista di Paul Landowski, l’artista che legherà per sempre il suo nome al Cristo, riuscirà a farla innamorare perdutamente. Così Bel inizia ad affacciarsi ad un mondo nuovo, sregolato, vivace, molto diverso dalla città in cui vive e che le è sempre andata stretta. 

Se pensate che però l’aria di Montparnasse e l’amore del suo Laurent Brouilly riesca finalmente a cambiare -e a liberare- Izabela come donna e soprattutto come persona, vi sbagliate di grosso: la nostra cara protagonista rimarrà sempre la ragazzina quasi ottocentesca che scoppia in lacrime ogni dieci pagine (e per dirlo io che piango come una fontana ce ne vuole), che è assolutamente incapace di prendere una decisione, e che per non ferire nessuno alla fine tante ne dice e tante ne fa da lasciare scontenti tutti, in primis sé stessa. E se considerate che prima di andare in Europa si definiva una femminista la cosa fa ridere (o piangere) parecchio! Ora, io capisco che Bel risenta della sua epoca (ché poi in fondo ci troviamo alla fine degli anni ‘20 a Parigi, e se avete visto, che so, Midnight in Paris saprete che non era proprio un ambiente monacale…) e soprattutto della sua educazione e della città retrograda in cui vive, ma a tutto c’è un limite! Dopo aver assistito a tutte ingiustizie a cui una donna doveva sottostare, soprattutto nella vita coniugale e intima (una delle poche note positive del libro), gradirei almeno che la suddetta donna prenda in mano la sua vita e cominci a pensare con la sua testa… Chiedo troppo? Evidentemente sì. 


E non è solo l’atmosfera di Rio, “inquinata” da una suocera perfida e maligna che controlla a bacchetta il figlio inetto e pure mezzo alcolista, a risentirne: appare scialba perfino quella parigina, in cui le feste estrose ad alto tasso alcolico e le personalità carismatiche che le frequentavano vengono bellamente ignorate. L’unico “baluardo” di questa realtà altrimenti taciuta in questo libro è proprio Laurent, ragazzo gentile, disponibile ed estroso che chissà perché deciderà di accollarsi Izabela (no, non sono troppo severa, fidatevi) e tutti i problemi che, seppur involontariamente, lei gli causerà. Completamente opposto a lui è Gustavo, l’inetto di cui sopra, tipico nobile che possiede solo il nome e che risulta quindi, almeno per 3/4 del racconto, essenzialmente più sciapo del pane toscano (non che mi sia strappata i capelli per questo...).


Se a ciò si aggiunge che la base mitologica viene tranquillamente tralasciata e che gli interrogativi fondamentali del romanzo -ovverosia gli unici elementi che avevano stuzzicato la mia curiosità- vengono rimandati a data (o meglio a romanzo) da destinarsi, avrete un quadro completo della mia esperienza di lettura. 

Per concludere con un commento a freddo, l’unica cosa che mi sento di dire è “Che peccato”.


E voi, cosa ne pensate di questo libro? Avete letto la serie de Le sette sorelle

Fatemi sapere tutto nei commenti!


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