Diario di scuola


C’è un luogo, forse l’unico, che quando si è costretti a frequentarlo è visto come una prigione sotto mentite spoglie, e che invece nel momento in cui non ci si può più mettere piede diventa magicamente lo sfondo delle foto a tema “i migliori anni della nostra vita”: la scuola. Sarà che il tempo è un po’ il fondotinta dei ricordi, e che come tale copre e aggiusta i dettagli spiacevoli delle nostre esperienze, sarà che dopo la maturità la vita diventa paradossalmente più acerba e complicata, sarà che “giovinezza mezza allegrezza”: in ogni caso, qualsiasi persona dagli -anta in su (per quanto riguarda questa imberbe pseudo-blogger, la vecchiaia inizia molto prima di quanto in realtà accada, perciò preferisco non espormi rischiando il linciaggio) vi dirà che quelli della scuola sì che erano bei tempi. Immancabilmente, attirerà su di sé occhiatacce, anatemi ed insulti non proprio velati da parte di tutti coloro che come me aspettano la campanella come un carcerato attende l’amnistia -no, il paragone non è casuale, visto il tempo che passo alla finestra della mia aula invidiando la libertà dei passanti…


Chissà perché, infatti, l’ansia prima di un’interrogazione, le sgridate di professori e genitori di fronte a un brutto voto, i pomeriggi di sole sprecati a fare i compiti non compaiono mai nei racconti dei “sopravvissuti”, mentre costituiscono la quasi totalità di quelli dello studente medio attuale. E vi prego di notare che ho preso in esame il caso di uno studente medio, uno che non è destinato a vincere un Nobel, ma che non va nemmeno poi così male come crede. E se non sono in grado di parlare per i geni in erba perché non posso (felicemente) definirmi una di loro, dopo aver letto il libro di cui a breve rivelerò il titolo (sì, so di aver già scritto un paragrafo e mezzo) posso decisamente comprendere il punto di vista di quegli ‟sfaticati”, ‟fannulloni”, ‟scavezzacollo”, ‟cattivi soggetti”: insomma, di quei “somari” che, anche se hanno eliminato l’infamante cappello con le orecchie di un secolo fa, hanno conservato le stesse sensazioni negative.


D’altra parte, nonostante agli studenti come me non faccia mai piacere ricordarlo, esiste anche il punto di vista degli insegnanti, il cui compito è più oneroso di quanto sembri: formare le menti di individui consapevoli, capaci di combattere per sé stessi e di non farsi influenzare da chicchessia, e fornire loro gli strumenti adatti per vivere appieno la vita che li aspetta -anche se le equazioni di secondo grado o la quarta declinazione sembrano stare alla vita pratica come un ventilatore al Polo. Maestri e professori hanno infiniti doveri nei confronti di tutti i loro alunni, ma se con quelli più portati si rivela più semplice rispettarli, con i somari sopracitati la cosa si complica parecchio. E purtroppo non tutti gli insegnanti riescono a far fronte al gravoso carico di svilimento, fallimenti, paura, solitudine ma anche menefreghismo e irritazione che un somaro porta con sé. 


Quale parte guardare per descrivere la condizione di questi “cattivi soggetti”? Quella degli stessi alunni o quella degli insegnanti? O ancora quella dei genitori, o della società, o della scuola come entità (fin troppo) astratta? Già, perché quei due schieramenti separati dalla distanza tra la cattedra e i banchi sembrano in tutto e per tutto incompatibili. Sembrano, perché il libro che sto per presentarvi (ancora avvolto nel mistero dopo quasi quattro paragrafi) vi dimostra che non lo sono: chi può infatti conciliare questi due lati della stessa medaglia meglio di un professore con un passato da somaro? 


“Un altro libro sulla scuola? Non credi che ce ne siano già abbastanza?”
“Non sulla scuola! Tutti si occupano della scuola [...] Un libro sul somaro! Sulla sofferenza di non capire, e i suoi danni collaterali”
“E’ stato così terribile?”
“...”
“...”
Questo è il dialogo che il celebre autore francese Daniel Pennac ha con il fratello Bernard a proposito dell’intenzione di scrivere un libro -un po’ saggio, un po’ romanzo e un po’ autobiografia- sulla sua traumatica esperienza scolastica e su quelle che continua indirettamente a vivere da professore. Ed è così, quindi, che Diario di scuola -ebbene sì, è questo il misterioso libro di oggi- prende forma. 


Ecco che scopro -come se non lo sapessi già- che potrei parlare per ore di me e delle mie paranoie da studentessa, mentre riportare l’argutezza, l’ironia e soprattutto la verità contenute in Diario di scuola si prospetta un compito quasi impossibile. Resto spesso “senza parole” quando devo infatti parlare di un’autobiografia, o ancora peggio di un saggio, sia perché la lettrice di narrativa che è in me fatica a mettersi del tutto in contatto con le parole dell’autore, sia perché quest’ultimo (se capace) riesce ad esprimere a pieno il suo pensiero e a lasciare davvero poco posto ad eventuali commenti esterni. Questo è proprio il caso di Diario di scuola: le dolorose memorie del giovane scavezzacollo che Pennac è stato, la conoscenza acquisita con anni e anni di insegnamento, l’identità della scuola di ieri, di oggi e, con un po’ di sforzo, anche di domani, l’analisi del contesto in cui prolifera la “somaraggine” -che, sia chiaro, non è solo quello delle banlieue e dei sobborghi-, lo sguardo della società a cui l’individuo interessa solo come consumatore: questi ed altri sono gli argomenti che ruotano attorno alla mistica figura del “somaro”, e che vengono trattati dall’autore in modo talmente esaustivo e sagace da farvi quasi venire voglia di tornare tra i banchi (non è un caso che mi sia cimentata in questa lettura durante il primo mese di scuola...). Ogni frase, ogni riga trasuda la passione di Pennac per l’insegnamento, il dolore non del tutto estinto scatenato dai voti sulle sue pagelle (e dall’abisso di vergogna e solitudine che celano) e, soprattutto, il sentimento di lotta rabbiosa e implacabile contro una società fatta di mode e marche, in cui l’ignoranza avanza incontrastata. 
Una società in cui:
“I prof ci fanno uscire fuori di testa!”
“Ti sbagli. Dalla testa ci sei già uscito. I professori cercano di fartici tornare”.


Forse, ma dico forse, alla fine la scuola non è una prigione. Forse sono davvero i migliori anni della nostra vita -e se lo sono, sinceramente, tremo per quello che dovrà aspettarmi. Forse dipende dalle persone che incontriamo sul nostro cammino, che siano studenti o professori, che ci spingono ad amare ciò che siamo e ciò che saremo. O forse dipende anche -solo- da noi. Forse. Quel che è certo, però, è che Diario di scuola non potete certo perdervelo. 


Adesso ditemi, avete letto questo libro? Quali sono le vostre opinioni in merito? Come avete vissuto il periodo della scuola? Come sempre, vi aspetto nei commenti! 

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