L'Arminuta e Borgo Sud: storie d'Abruzzo


I libri di oggi -ve ne presento due perché per me rappresentano ormai un’unica storia- mi stanno particolarmente a cuore, perché sono tra i pochi ambientati in una realtà a me vicina: sto parlando de L’Arminuta e di Borgo Sud, della scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio.


Nell’agosto 1975, in un paese sperduto tra le montagne abruzzesi, una bambina di tredici anni aspetta sul pianerottolo. Quella è casa sua, eppure lei non la conosce, e la stessa cosa vale per la famiglia che vi abita. Fino a qualche giorno prima quella ragazzina credeva che le persone con cui era cresciuta a Pescara fossero i suoi genitori, ma si sbagliava: in realtà era stata loro affidata da neonata dalla sua vera famiglia, che aveva fin troppi figli rispetto al denaro che girava in casa. L’Arminuta (la ritornata), come la chiamano in paese, da un giorno all’altro deve dire addio all’amore incondizionato della madre -o meglio della zia- Adalgisa, che le hanno detto è affetta da una grave malattia, all’amica Patrizia e a tutte le sue compagne di scuola, ai corsi pomeridiani, all’ambiente sicuro e familiare della città. Così si ritrova in un minuscolo appartamento cercando pian piano di conoscere meglio quegli estranei che sono la sua sola famiglia: la madre spossata e anaffettiva e il padre quasi invisibile; i fratelli Sergio e Domenico, maligni e sempre pronti a farla sentire fuori posto; il piccolo e innocente Giuseppe; il maggiore Vincenzo, che si allontana per giorni con gli zingari fuori dal paese e guarda la nuova arrivata come fosse già donna. Soprattutto, però, l’Arminuta stringe amicizia con la sorellina Adriana, quella ragazzina scarmigliata, selvaggia e pragmatica che le apre la porta -letteralmente e metaforicamente- di quel mondo così lontano da lei e al quale potrebbe soccombere.

Anni dopo, l’Arminuta è diventata grande. La ritroviamo in una camera d’albergo, dove si è dovuta sistemare in seguito al suo improvviso ritorno a Pescara da Grenoble, la città francese in cui è una professoressa universitaria. Quasi in un flusso di coscienza, ci racconta lampi della sua vita e di quella di Adriana, delle esperienze che le hanno allontanate e poi riavvicinate, dei loro amori più o meno tormentati, del senso di abbandono che, figlie di nessuna madre, si sono sempre portate dietro. A fare da sfondo alla sua storia è Pescara, e soprattutto la Marina, che per Adriana diventerà la famiglia che ha tanto sofferto per avere.


Immagino che per gli abitanti di quelle città costantemente immortalate in migliaia di opere letterarie e artistiche, il piacere di ritrovare tra le pagine di un libro quei nomi noti e quegli aspetti unici della propria realtà si sia ormai attenuato da tempo; per una ragazza dell’Abruzzo, una regione che nonostante le sue bellezze passa abbastanza inosservata, è invece un’esperienza emozionante: non dovermi sforzare per capire le frasi in dialetto, riconoscere la mia quotidianità (o in questo caso quella dei miei nonni e dei miei genitori), afferrare quei riferimenti a feste, cibi, vie, città non è qualcosa che accade di frequente. Quando perciò nel gruppo (lo stesso con cui ho letto quel capolavoro che è Lettera a un bambino mai nato) abbiamo deciso di iniziare insieme L’Arminuta, seguito da Borgo Sud, sono stata veramente molto felice di condividere con qualcuno questa lettura, che già in partenza si presentava soddisfacente. Ma quanto alla fine le mie aspettative sono state soddisfatte?


Partiamo analizzando le figure dell’Arminuta e di Adriana, rispettivamente protagoniste principali del primo e del secondo libro. Innanzitutto vorrei evidenziare come di quella tredicenne disperata che aspetta di conoscere il suo destino sul pianerottolo di una casa sconosciuta non si saprà mai il nome: lei ci dice “ero l'Arminuta, la ritornata. Parlavo un'altra lingua e non sapevo piú a chi appartenere”, e questo marchio le rimarrà addosso per tutta la vita. Improvvisamente, si trova divisa tra il rimanere la ragazza studiosa, riflessiva e giudiziosa che era e l’accettare una vita fatta di sacrifici, compromessi e battaglie contro sé stessa, la sua famiglia e soprattutto contro la paura. La paura che non la fa dormire, che le costringe a pensare continuamente alla malattia della madre Agnese, mentre l’altra -la vera- come suo solito non le offre alcuna dimostrazione di affetto. Alla paura segue poi la rabbia, che col tempo si trasforma in freddo risentimento, nei confronti dei suoi genitori -tutti- che la trattano come fosse un pacco, che la abbandonano e la riprendono senza alcun preavviso, che fanno tanto per lei eppure, in fondo, non le lasciano niente. C’è infine una terza emozione che la rincorre per tutto il romanzo: quel misto di curiosità e diffidenza, vergogna e commiserazione che prova per le sue vere origini, con la consapevolezza che se i suoi “zii” avessero scelto un altro figlio da portarsi via, lei non sarebbe stata diversa dalle persone che ora la circondano. 

Dopo tanta sofferenza, scegliere di sposare un uomo di buona famiglia come Piero (che da subito la madre etichetta come non “della razza nostra”, “un po’ troppo per te”) è una scelta più che comprensibile, alla ricerca di quella normalità che lei si è sempre vista portare via. Ma purtroppo le cose, come ormai l’Arminuta ha imparato bene, non sono mai come sembrano, perché sempre e comunque in lei ci sarà “qualcosa che chiamava gli abbandoni”.


La personalità giudiziosa, pacata, riservata dell’Arminuta contrasta notevolmente con quella della sorella Adriana. Come abbiamo già detto, quella bambina con le trecce sfatte e i vestiti in disordine non rappresenta altro che la vita che l’Arminuta avrebbe avuto se fosse rimasta nel paese d’origine. Le difficoltà hanno infatti costretto questa bambina di nove anni a maturare in fretta e a diventare più autonoma, coraggiosa e astuta di quanto lo sia la sorella maggiore. Vedendo così sperduta quella nuova arrivata, anzi, quella ritornata, Adriana le si avvicina istintivamente, incuriosita, affascinata e man mano sempre più consapevole dell’aiuto che può fornirle, facendo da scudo a lei e ai privilegi che porta con sé.

Se però da bambina le sue doti da piccola sopravvissuta vengono mitigate dall’innocenza e dalla voglia di resistere, che la rendono simile a un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia”, una volta grande comincia a cacciarsi nei guai e non esita a disubbidire alla madre con cui si scontra ogni giorno. Nonostante infatti non sia lei ad essere stata abbandonata, anche Adriana sente il peso della durezza di quella donna che inconsapevolmente le fa del male, che non dà affetto e non vuole riceverne, che tratta i figli quasi come estranei. Inizia quindi a ribellarsi marinando la “scuola di città”, intrecciando una complicata e morbosa storia con il pescatore Rafael, crescendo da sola il figlio Vincenzo e tentando ogni espediente pur di raggranellare qualcosa. Lentamente ma inesorabilmente anche lei si stacca dalla sua famiglia originaria in favore della comunità dei pescatori di Borgo Sud, che la accolgono, la proteggono e la fanno sentire a casa più di quanto le sia mai capitato prima. La sua personalità passionale e vera, capace di tremendi scatti d’ira e di sorprendenti esplosioni di gioia, la sua forza innata contrapposta alle mille debolezze, la rendono un personaggio unico anche per la Marina di Pescara, dove dopo un’infinita Odissea la sua vita finirà per arenarsi.


Ma questa non è la storia di due sorelle, o almeno non nel senso classico del termine: il sentimento principale che affiora dalle pagine di questi romanzi, infatti, non è la sicurezza di avere qualcuno che comprende il nostro dolore e per questo ci sostiene, ma il senso di abbandono e la solitudine invincibile di entrambe, che, figlie di nessuna madre, le rende simili. Nonostante il “mal comune”, però, non ci sarà nessun “mezzo gaudio”: le solitudini di Adriana e dell’Arminuta non si incontreranno se non durante episodi tanto brevi quanto intensi, ma mai abbastanza per costruire un rapporto costante e duraturo. Quel 1975 in cui le loro esistenze sono state stravolte è ormai lontano: il giuramento che avevano fatto di non separarsi mai, di vivere come vere sorelle il tempo che rimaneva loro è stato infranto da entrambe nel silenzio. Se il finale de L’Arminuta sembrava infatti una promessa di speranza e di rinascita per entrambe attraverso la fatica e l’aiuto reciproco, con Borgo Sud ci accorgiamo che la realtà è più complicata: la loro resilienza non è abbastanza per garantire loro una ricompensa, perché Adriana e l’Arminuta sono e saranno indissolubilmente legate al proprio destino, al proprio sangue, alla propria terra.


Eppure mi viene da domandarmi: è stato il destino che, una volta cresciute, ha reso le due sorelle le creature orfane e peregrine che sono diventate, oppure è stata la loro incuria, il loro abbandonarsi a una storia già scritta? “Il destino è una cosa da vecchi, non puoi crederci a quattordici anni. E se ci credi, lo devi cambiare, si sente dire l’Arminuta da Vanda, la madre della sua migliore amica Patrizia: ebbene, credo sia stato questo il problema principale della ragazza, l’aver ripiegato su un destino che lei stessa ha ritenuto già tracciato. In modo simile si è comportata Adriana, che per ribellarsi alle sue origini ha deciso di sprecare tutte le possibilità -economiche e morali- faticosamente ottenute, diventando però in certi aspetti simile alla madre -per esempio per la capacità di ferire senza volere, la testardaggine e la difficoltà nel perdonare, la misteriosa saggezza profetica e pratica. Pian piano la sua parte bambina già soffocata dalle difficoltà, ma che nonostante tutto si sforzava di restare in piedi come un albero nella tempesta, va perduta, anzi, nascosta: malgrado infatti tutti i guai in cui finisce per sguazzare, Adriana “s’immerge nella melma e ne esce candida”, e alla fine trova la sua strada, il suo scopo, il suo equilibrio. Al contrario, l’Arminuta sembra non riuscire a fare nient’altro se non “contrabbandare una falsa normalità” e scappare dai problemi che però continuano ad inseguirla -“un vuoto persistente, che conosco ma non supero”. La maturazione di entrambi i personaggi mi ha quindi lasciato un po’ perplessa: la prima infatti per buona parte del tempo cela il suo spirito più dolce(amaro) e fanciullesco che mi aveva subito conquistato, e la seconda al contrario il passato non riesce proprio a metterlo da parte. 


E nonostante in Borgo Sud ci siano stati altri elementi che mi hanno fatto storcere il naso, per esempio l’abbandono completo della relazione tra la protagonista e la prima madre o il finale che stona un po’ con il resto della narrazione, la scrittura della Di Pietrantonio è riuscita ad incantarmi e a catapultarmi nella storia: poetica ma diretta, ammaliante ma incisiva, non ci sono parole per descriverne la forza evocativa.


Consigliatissimo il primo, un po’ meno raccomandato il secondo, quelli che vi ho presentato sono e restano due libri facili da seguire, devastanti da rielaborare, bellissimi da portare con sé. Perché ci sono storie silenziose che meritano di non essere dimenticate.

E ora ditemi, conoscevate questa autrice? Cosa pensate delle sue opere? Avete mai letto dei libri ambientati nella vostra terra?

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